domenica 10 marzo 2024

Io ricordo - Io, non Noi

 



Non c’era più la discussione della politica, di un sentire comune e condiviso quando sono arrivato io. Sono arrivato troppo tardi o troppo presto, forse. Durante i pranzi, a casa, alla fine degli anni Settanta, si restava in silenzio o si ascoltava il telegiornale delle 13,30 sul primo canale. Ricordo ancora la notizia del sequestro Moro, Il 16 marzo 1978 e poi il ritrovamento del suo cadavere, il 9 maggio a Roma in via Caetani. Lo ricordo perché la notizia venne data al TG, ed io ero a tavola con i miei genitori ed i miei fratelli, ma nessun commento ci fu mentre si mangiava (forse gli spaghetti al pomodoro, che è il ricordo di cibo più vivo che ho di quegli anni). La politica non entrava in casa, tanto meno a tavola.

Solo più tardi, all’Università (erano finiti i tristi anni Ottanta, quelli rampanti degli Yuppies) compresi il senso di comunità politica che discute del presente, si interroga, si scontra. Era il 1990, l’anno della Pantera, delle occupazioni universitarie contro la riforma Ruberti per le Università. Allora ho sentito la forza viva di un pensiero che diveniva parola, nelle riunioni infinite nell’aula magna occupata, nella condivisione di cibo per terra nell’atrio, fumando una sigaretta e parlando di capitalismo, di musica, di teatro, di lavoratori. Quella stagione diede vita nell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, al CUT, il Centro Universitario Teatrale La nave dei folli, e all’idea che l’arte non fosse quella cosa lontana dalla vita di ogni giorno, ma fosse carne, sangue, azione.

Vivevo scisso: tra la famiglia con cui trascorrevo i pranzi domenicali nel silenzio o nella chiacchiera vuota come di spot pubblicitari, e l’ansia della corsa nella settimana tra la lettura del Manifesto, il caffè con Giulio all’Astra, le riunioni e le prove del CUT e l’ansia della vita adulta che bussava.   


domenica 22 ottobre 2023

Io ricordo - Benevento

 


Benevento è stato il luogo della crescita, dell'amicizia, dell'amore. Ma, come in fondo ogni altro luogo in cui ho vissuto, non l'ho sentita mia. Non so da cosa dipenda il sentirmi fuori luogo ovunque vada, ovunque abiti. Ci sono cose, però, fissate nella mia memoria. Il sogno nella camera che dava su via de Nicastro; l'asilo, il gioco del silenzio, la filastrocca di Cappuccetto Rosso con acchiapparella nel giardino; il giro di Benevento dei bambini ed io nel giardino (lo sguardo della bambina); il corridoio buio e le stanze (camera da letto, bagno, salone con TV e quell'unica cena con ospiti; la cucina a sinistra con la veranda); Natale ed i regali fuori dalla porta portati da un carabiniere che bussava; la rabbia di mio padre perché non andavamo a mangiare il giorno di Natale scaricata sui giochi a calci; gli orecchioni con gli asciugamani rossi intorno alla testa...

Non so se singolarmente o tutte insieme queste cose raccontino qualcosa di me, mi fondino in quello che sono oggi. è certo, però, che a ripensarle oggi provo un senso di dolore ancora vivo, una inadeguatezza nel comportamento, un'ansia che mi attanaglia ancora oggi.

Nel sogno di bambino mio padre veniva ucciso da una strega. La paura e il dolore nello svegliarmi gridando di soprassalto non svanirono, nemmeno con l'arrivo di mio padre. Della casa ho memoria di angoli bui, un corridoio scuro, la penombra. Unico luogo luminoso la veranda della cucina. Della casa amavo il giardino, in cui mi perdevo in giochi solitari e fantasiosi. Fuori poco altro: una scuola dell'infanzia delle suore vicina, poco frequentata per la mia asma, che mi lasciava spossato e senza fiato (con l'idea anche di morire).

Dell'asilo ricordo poco: il gioco del silenzio che facevano le suore tenendoci nella penombra ed immobili; lo spazio esterno in cui giocavamo ad acchiapparella con la canzone di Cappuccetto Rosso e il lupo («"Cappuccetto rosso vieni vieni qua, che adesso viene il lupo che ti mangerà" "Io non ho paura perché devo andare dalla mia nonnina che mi sta ad aspettar..." "Corri Cappuccetto Rosso"») e le corse per non farsi afferrare; l'uscita esterna a cui non ho partecipato per l'asma, e lo sguardo triste dal giardino al gruppo degli scolari e ad una bambina che mi vide e ricambiò a lungo lo sguardo.

Inadeguato. Mi sentivo inadeguato. E spaventato. Ma può un bambino sentirsi perennemente così? Ho sognato a lungo quei vicoli intorno a via De Nicastro, sempre con la sensazione di perdermi e non ritrovare la strada di casa. Eppure il corso era a pochi passi, come l'Arco di Traiano. Ma le distanze erano enormi, allora, come i timori. 

L'inizio della scuola elementare al Collegio De La Salle portò con sé l'incontro con Nicola, l'amico.   


Sylvie e Bruno

 



Forse è perché il mio amore per il teatro nasce dalla visione di spettacoli "materici" in cui l'azione e la parola sono carne, sono fuoco che brucia la mente, ma lo spettacolo Sylvie e Bruno della compagnia Fanny & Alexander non riesce a scalfire la scorza esterna, non penetra nel cuore e mi lascia freddo, anche un po' annoiato alla fine.

Uno spettacolo sognante, in cui tutto creano le parole di Lewis Carroll e le luci, dove tutto è lasciato alla immaginazione dello spettatore che fa fatica a seguire l'andamento della storia, anzi delle due storie intrecciate, i cambi di ambientazione, il filo sottile che si dipana tra il fumo, i gesti, le parole e i pochi oggetti di scena (le sedie). Ed è forse proprio la comprensione, alla fine, quella di me spettatore, che manca. L'io-bambino, che dovrebbe immergersi nella nebbia artificiale, nelle luci-bosco, luci-piazza, luci-treno, non risponde alle sollecitazioni e si domanda cosa vogliano dire quei bravi 5 attori sulla scena. 

Ma la domanda non trova risposta nemmeno alla fine, nel dialogo post-spettacolo, lasciando in me un senso di inespresso. Allora alla domanda di Marco Cavalcoli al pubblico rimasto di dire una parola che descrivesse per noi spettatori quanto visto, la mia risposta non può che essere "inespresso".



Visto il 20 ottobre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.


mercoledì 18 ottobre 2023

Il Capitale

 


è il tempo quello che ci ruba il Capitale. Lo spettacolo di Kepler - 452 mette in scena (ma è corretto definire così quello che abbiamo visto?) la storia di una fabbrica, la GKN di Campi Bisenzio, in cui tutti gli operai sono stati licenziati con una mail il 9 luglio 2021. è la molla che spinge gli operai ad occupare la fabbrica, a rivendicare i propri diritti ma, soprattutto, a riprendere il proprio tempo.

Attraverso la storia collettiva ("Occupiamo", "Insorgiamo" le parole simbolo con al centro il Noi) e personale (quella dei lavoratori sulla scena che raccontano il proprio vissuto, il prima e il dopo delle loro vite da quel 9 luglio 2021) e attraverso la storia della nascita dello spettacolo, con la condivisione dei giorni di lotta e discussione della compagnia con gli operai, ricostruiamo la storia del Novecento, l'affermazione del Capitalismo, di un tempo personale ingoiato dalla fabbrica, di vite dominate dall'ansia, di "punizioni" per mancata "collaborazione" col capitale, strategie studiate per distruggere il rispetto di se stessi, per ingenerare paura, per ridurre la singolarità di ognuno di noi a merce, a "pezzi" di un meccanismo industriale anonimo e irrazionale (o meglio a-razionale).  È la fabbrica di Chaplin in Tempi moderni, è il fordismo esasperato, la catena di montaggio in cui l'operaio è parte del processo produttivo, al pari delle macchine, è un "pezzo",  è l'oggi in cui viviamo.

Scandita dal rumore dell'orologio, la storia ritrova un senso proprio a partire da quel gesto irrazionale di occupazione: è allora che uomini e donne (le poche assunte) ritrovano la propria dignità, il proprio tempo, recuperando il senso della propria vita.

È "naturale" proseguire, dopo lo spettacolo, il dialogo su una storia che non è quella di attori, ma è quella degli operai che la raccontano in scena, e che è la nostra storia. Una storia in cui il Capitale, forse, non ha ancora sopraffatto del tutto le nostre vite.



Visto l'8 ottobre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.


Con la carabina

 




La violenza portata sulla scena, esposta, col pubblico voyeur, che assiste prima al racconto dello stupro e poi alla uccisione dello stupratore.

Il teatro come set cinematografico, dove i due attori, con pochi oggetti e i faretti che spostano sulla scena, mostrano l'orrore di una violenza quotidiana da cui non c'è redenzione. Non si esce dallo spazio scenico catarticamente liberati, piuttosto oppressi dall'angoscia di un qualcosa che ascoltiamo in forme e modi vari dal telegiornale, che leggiamo nelle cronache cittadine dei quotidiani, a cui siamo quasi oramai assuefatti.

Ecco, forse il senso di Con la carabina della Compagnia Licia Lanera è questo: farci assistere direttamente a quell'orrore che in genere ascoltiamo soltanto, tra un piatto di pasta ed un giro fuori porta, tra una passeggiata ed un giochino on line. Qui siamo costretti a vederlo, anche subirlo, senza poter nemmeno empatizzare completamente con la vittima, ma solo domandandoci di cosa è figlio quell'orrore, di quale società, che vittimizza lo stupratore e condanna la vittima, rendendola a sua volta carnefice.  

Funziona l'azione scenica con le luci di volta in volta spostate dagli attori a segnare e seguire l'intreccio di vite, tra passato e presente, tra vittima e carnefice, tra gioco e realtà.

Nonostante tutto, lo spettacolo non mi è piaciuto, resta una distanza tra il racconto dell'orrore e la realtà, che supera qualunque messa in scena. Resto spettatore. Così come ogni giorno.


Visto il 4 ottobre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.

Il Terzo Reich


 

No, la videoistallazione di Romeo Castellucci non mi ha convinto. E non perché non sia importante il tema affrontato (l'eccesso di parole da cui siamo sommersi e che divengono insignificanti) ma il modo in cui lo tratta. D'altra parte Castellucci e la Socìetas sono da sempre attenti al discorso sul linguaggio, e in ben altro modo lo avevano trattato in Giulio Cesare - Pezzi staccati ma anche in Sul concetto di volto nel figlio di Dio.

Qui, invece, l'immersione nel cupo suono rimbombante, con le parole che dilagano sullo schermo, una dietro l'altra, mi ha ricordato le serate futuriste, il voler esclusivamente provocare lo spettatore (diverse persone dopo i primi 15' sono uscite dalla sala). E non mi convince nemmeno la riflessione di qualcuno che suggeriva, vista la presenza esclusiva di sostantivi, il tema sacro (anch'esso caro al gruppo teatrale) della privazione del Verbo nel nostro oggi. No. A me pare, piuttosto, la messa in rilievo di cui da anni e da più parti si discute - umana, troppo umana -, della perdita di senso della parola («Le parole sono importanti» rimarcava Nanni Moretti in Palombella rossa). Oggi siamo aggrediti dalle parole, ci dilaniano, ci sommergono e, ad un certo punto, perdono il loro significato.

Delle 15.000 che si sono susseguite sullo schermo ne ho mantenute solo alcune, quelle che rimandavano al linguaggio sessuale (pompino, cazzo, vulva...), alla violenza (sangue), alla società (capitale), ma mi è rimasta in mente una in particolare che alludeva a quello in cui mi sono sentito sprofondato: abisso.

Il momento iniziale, con una ieratica sacerdotessa che, prima nel buio e poi alla luce di una candela, compie gesti che vorrebbero alludere ad un significato altro - per me inconoscibile -, o forse dar vita alla nascita della parola, resta distaccato dal resto e, in definitiva, insensato, come il resto. 


Visto il 26 settembre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.

Ashes

 



Ring-a-ring-a-rosies
A pocket full of posies
Ashes to ashes!
We all fall down!


C'è ancora il tempo al centro dello spettacolo Ashes di Muta Imago, un tempo misto che, all'interno di una giornata (una vita) di una famiglia mischia passato presente e futuro, alterna tra gli attori i personaggi che di volta in volta rappresentano diverse età della vita (bambini, adulti, vecchi) e diverse ere della storia (animali preistorici, uomini, ma anche una terra senza ancora la presenza della vita animale). Il linguaggio e il suono in questo spettacolo sono tutto, e ogni cosa è resa "visibile" e immaginabile attraverso la voce, il grido, il sussurro (di uomini, animali, del vento, del fuoco, dell'acqua) e la musica con in scena Lorenzo Tomio che accompagna e guida con la chitarra e il mixer audio.
Sulla scena spoglia i quattro protagonisti hanno solo i microfoni ad asta ed i leggii con gli spartiti. Il resto lo fanno la musica ed i fari che, con i loro giochi di luce ad accompagnare le voci, creano la suggestione del tempo nello spettatore.
Un tempo errante i cui confini si slabbrano, come quelli tra le cose, come in un sogno dove ritorniamo fanciulli, rivediamo le persone care che non ci sono più, siamo uccelli nel cielo, e la partitura musicale guida i nostri passi, i suoni ovattati dell'esterno creano il nostro sogno o ci riportano alla realtà.
Come nello spettacolo del collettivo Sotterraneo, anche qui ha un ruolo importante ciò che umano non è, e se il discorso rispetto a L'angelo della storia risulta più estetico che etico, resta l'attenzione data a ciò che oggi l'uomo tende a distruggere spinto dalla furia antropocentrica: ciò che "umano" non è, l'ambiente, il sogno.
Punto di merito finale di questa stagione del Città 100 scale è Nutrire lo sguardo a fine spettacolo, con la possibilità dell'incontro con gli attori e i registi. 



Visto il 22 settembre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival