Non c’era più la
discussione della politica, di un sentire comune e condiviso quando sono
arrivato io. Sono arrivato troppo tardi o troppo presto, forse. Durante i pranzi,
a casa, alla fine degli anni Settanta, si restava in silenzio o si ascoltava il
telegiornale delle 13,30 sul primo canale. Ricordo ancora la notizia del
sequestro Moro, Il 16 marzo 1978 e
poi il ritrovamento del suo cadavere, il 9 maggio a Roma in via Caetani. Lo
ricordo perché la notizia venne data al TG, ed io ero a tavola con i miei
genitori ed i miei fratelli, ma nessun commento ci fu mentre si mangiava (forse
gli spaghetti al pomodoro, che è il ricordo di cibo più vivo che ho di quegli
anni). La politica non entrava in casa, tanto meno a tavola.
Solo più tardi, all’Università (erano finiti i tristi anni Ottanta,
quelli rampanti degli Yuppies) compresi il senso di comunità politica che
discute del presente, si interroga, si scontra. Era il 1990, l’anno della
Pantera, delle occupazioni universitarie contro la riforma
Ruberti per le Università. Allora ho sentito la forza viva di un pensiero che
diveniva parola, nelle riunioni infinite nell’aula magna occupata, nella
condivisione di cibo per terra nell’atrio, fumando una sigaretta e parlando di
capitalismo, di musica, di teatro, di lavoratori. Quella stagione diede vita
nell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, al CUT, il Centro
Universitario Teatrale La nave dei folli,
e all’idea che l’arte non fosse quella cosa lontana dalla vita di ogni giorno,
ma fosse carne, sangue, azione.
Vivevo scisso: tra la
famiglia con cui trascorrevo i pranzi domenicali nel silenzio o nella
chiacchiera vuota come di spot pubblicitari, e l’ansia della corsa nella
settimana tra la lettura del Manifesto, il caffè con Giulio all’Astra, le
riunioni e le prove del CUT e l’ansia della vita adulta che bussava.